zona intermedia

 L’immane farsa umana

(non mancheranno ragioni per occuparsi

del suo risvolto tragico)

non è affar mio. Pertanto

mi sono rifugiato nella zona intermedia

che può chiamarsi inedia accidia o altro.

Si dirà: sei colui che cadde dal predellino

e disse poco male tanto dovevo scendere.

Ma non è così facile distinguere

discesa da caduta, cattiva sorte o mala.

il viaggio

 ll viaggio finisce qui:

nelle cure meschine che dividono

l'anima che non sa più dare un grido.

Ora i minuti sono eguali e fissi

come i giri di ruota della pompa.

Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.

Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.


Il viaggio finisce a questa spiaggia

che tentano gli assidui e lenti flussi.

Nulla disvela se non pigri fumi

la marina che tramano di conche

i soffi leni: ed è raro che appaia

nella bonaccia muta

tra l'isole dell'aria migrabonde

la Corsica dorsuta o la Capraia.


Tu chiedi se così tutto vanisce

in questa poca nebbia di memorie;

se nell'ora che torpe o nel sospiro

del frangente si compie ogni destino.

Vorrei dirti che no, che ti s'appressa

l'ora che passerai di là dal tempo;

forse solo chi vuole s'infinita,

e questo tu potrai, chissà, non io.

Penso che per i più non sia salvezza,

ma taluno sovverta ogni disegno,

passi il varco, qual volle si ritrovi.

Vorrei prima di cedere segnarti

codesta via di fuga

labile come nei sommossi campi

del mare spuma o ruga.

Ti dono anche l'avara mia speranza.

A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:

l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.


Il cammino finisce a queste prode

che rode la marea col moto alterno.

Il tuo cuore vicino che non m'ode

salpa già forse per l'eterno.

il Verbo

 Si risolve ben poco

con la mitraglia e col nerbo.

L’ipotesi che tutto sia un bisticcio,

uno scambio di sillabe è la più attendibile.

Non per nulla in principio era il Verbo.

nel disumano

 Non è piacevole

saperti sottoterra anche se il luogo

può somigliare a un’Isola dei Morti

con un sospetto di Rinascimento.

Non è piacevole a pensarsi ma

il peggio è nel vedere. Qualche cipresso

tombe di second’ordine con fiori finti,

fuori un po’ di parcheggio per improbabili

automezzi. Ma so che questi morti

abitavano qui a due passi, tu

sei stata un’eccezione. Mi fa orrore

che quello che c’è lì dentro, quattro ossa

e un paio di gingilli, fu creduto il tutto

di te e magari lo era, atroce a dirsi.

Forse partendo in fretta hai creduto

che chi si muove prima trova il posto migliore.

Ma quale posto e dove? Si continua

a pensare con teste umane quando si entra

nel disumano.

educazione intellettuale

 Il grande tetto où picoraient des focs

è un’immagine idillica del mare.

Oggi la linea dell’orizzonte è scura

e la proda ribolle come una pentola.

Quando di qui passarono le grandi locomotive

Bellerofonte, Orione i loro nomi,

tutte le forme erano liquescenti

per sovrappiù di giovinezza e il vento

più violento era ancora una carezza.


Un ragazzo col ciuffo si chiedeva

se l’uomo fosse un caso o un’intenzione,

se un lapsus o un trionfo..., ma di chi?

Se il caso si presenta in un possibile

non è intenzione se non in un cervello.

E quale testa universale può

fare a meno di noi? C’era un dilemma

da decidere (non per gli innocenti).


Dicevano i Garanti che il vecchio logos

fosse tutt’uno coi muscoli dei fuochisti,

con le grandi zaffate del carbone,

con l’urlo dei motori, col tic tac

quasi dattilografico dell’Oltranza.

E il ragazzo col ciuffo non sapeva

se buttarsi nel mare a grandi bracciate

come se fose vero che non ci si bagna

due volte nella stessa acqua.


Il ragazzo col ciuffo non era poi

un infante se accanto a lui sorgevano

le Chimere, le larve di un premondo,

le voci dei veggenti e degli insani,

i volti dei sapienti, quelli ch’ebbero un nome

e che l’hanno perduto, i Santi e il princeps

dei folli, quello che ha baciato il muso

di un cavallo da stanga e fu da allora l’ospite

di un luminoso buio.


E passò molto tempo.

Tutto era poi mutato. Il mare stesso

s’era fatto peggiore. No vedo ora

crudeli assalti al molo, non s’infiocca

più di vele, non è il tetto di nulla,

neppure di se stesso.

mare

Antico, sono ubriacato dalla voce

ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono

come verdi campane e si ributtano

indietro e si disciolgono.

La casa delle mie estati lontane,

t'era accanto, lo sai,

là nel paese dove il sole cuoce

e annuvolano l'aria le zanzare.

Come allora oggi in tua presenza impietro,

mare, ma non più degno

mi credo del solenne ammonimento

del tuo respiro. Tu m'hai detto primo

che il piccino fermento

del mio cuore non era che un momento

del tuo; che mi era in fondo

la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso

e insieme fisso:

e svuotarmi così d'ogni lordura

come tu fai che sbatti sulle sponde

tra sugheri alghe asterie

le inutili macerie del tuo abisso.

.......

Tu vastità riscattavi

anche il patire dei sassi:

pel tuo tripudio era giusta

l'immobilità dei finiti.

.....

Giunge a volte, repente,

un'ora che il tuo cuore disumano

ci spaura e dal nostro si divide.

Dalla mia la tua musica sconcorda,

allora, ed è nemico ogni tuo moto.

In me ripiego, vuoto

di forze, la tua voce pare sorda.

......

Mia vita è questo secco pendio,

mezzo non fine, strada aperta a sbocchi

di rigagnoli, lento franamento.

.....

Lontani andremo e serberemo un'eco

della tua voce, 

.....

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale

siccome i ciottoli che tu volvi,

mangiati dalla salsedine;

scheggia fuori del tempo, testimone

di una volontà fredda che non passa.


Altro fui: uomo intento che riguarda

in sé, in altrui, il bollore

della vita fugace – uomo che tarda

all'atto, che nessuno, poi, distrugge.


Volli cercare il male

che tarla il mondo, la piccola stortura

d'una leva che arresta

l'ordegno universale; e tutti vidi

gli eventi del minuto

come pronti a disgiungersi in un crollo.


Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi

l'opposto in cuore, col suo invito; e forse

m'occorreva il coltello che recide,

la mente che decide e si determina.

Altri libri occorrevano

a me, non la tua pagina rombante


Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli

ancora i groppi interni col tuo canto.

Il tuo delirio sale agli astri ormai.

la storia

 La storia non si snoda

come una catena

di anelli ininterrotta.

In ogni caso

molti anelli non tengono.

La storia non contiene

il prima e il dopo,

nulla che in lei borbotti

a lento fuoco.

La storia non è prodotta

da chi la pensa e neppure

da chi l'ignora. La storia

non si fa strada, si ostina,

detesta il poco a poco, non procede

né recede, si sposta di binario

e la sua direzione

non è nell'orario.

La storia non giustifica

e non deplora,

la storia non è intrinseca

perché è fuori.

La storia non somministra carezze o colpi di frusta.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C'è chi sopravvive.

La storia è anche benevola: distrugge

quanto più può: se esagerasse, certo

sarebbe meglio, ma la storia è a corto

di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s'incontra l'ectoplasma

d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.

pensiero

 Questo che a notte balugina

nella calotta del mio pensiero,

traccia madreperlacea di lumaca

o smeriglio di vetro calpestato,

non è lume di chiesa o d’officina

che alimenti

chierico rosso, o nero.


Solo quest’iride posso

lasciarti a testimonianza

d’una fede che fu combattuta,

d’una speranza che bruciò più lenta

di un duro ceppo nel focolare.

Conservane la cipria nello specchietto

quando spenta ogni lampada

la sardana si farà infernale

e un ombroso Lucifero scenderà su una prora

del Tamigi, dell’Hudson, della Senna

scuotendo l’ali di bitume semi-

mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.


Non è un’eredità, un portafortuna

che può reggere all’urto dei monsoni

sul fil di ragno della memoria,

ma una storia non dura che nella cenere

e persistenza è solo l’estinzione.

Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato

non può fallire nel ritrovarti.

Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio

non era fuga, l’umiltà non era

vile, il tenue bagliore strofinato

laggiù non era quello di un fiammifero.

nome

Mi chiedono se ho scritto

un canzoniere d’amore

e se il mio onlie begetter

è uno solo o è molteplice.

Ahimè,

la mia testa è confusa, molte figure

vi si addizionano,

ne formano una sola che discerno

a malapena nel mio crepuscolo.

Se avessi posseduto

un liuto come d’obbligo

per un trobar meno chiuso

non sarebbe difficile

dare un nome a colei che ha posseduto

la mia testa poetica o altro ancora.

Se il nome

fosse una conseguenza delle cose,

di queste non potrei dirne una sola

perché le cose sono fatti e i fatti

in prospettiva sono appena cenere.

Non ho avuto purtroppo che la parola,

qualche cosa che approssima ma non tocca;

e così

non c’è depositaria del mio cuore

che non sia nella bara. Se il suo nome

fosse un nome o più nomi non conta nulla

per chi è rimasto fuori, ma per poco,

della divina inesistenza. A presto,

adorate mie larve!

fu

 Probabilmente

non sei più chi sei stata

ed è giusto che sia così.

Ha raschiato a dovere la carta a vetro

e su noi ogni linea si assottiglia.

pure qualcosa fu scritto

sui fogli della nostra vita.

Metterli controluce è ingigantire quel segno,

formare un geroglifico più grande del diadema

che ti abbagliava.

Non apparirai più dal portello

dell'aliscafo o da fondali d'alghe,

sommozzatrice di fangose rapide

per dare un senso al nulla. Scenderai

sulle scale automatiche dei templi di Mercurio

tra cadaveri in maschera,

tu la sola vivente

e non mi chiederai

se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione

e di chi di noi fosse il centro

a cui si tira con l'arco dal baraccone. In

Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui

che ha veduto un istante e tanto basta

a chi cammina incolonnato come ora

avviene a noi se siamo ancora in vita

o era inganno crederlo.

parlare

 Incespicare, incepparsi

è necessario

per destare la lingua

dal suo torpore.

Ma la balbuzie non basta

e se anche fa meno rumore

è guasta lei pure. Così

bisogna rassegnarsi

a un mezzo parlare. Una volta

qualcuno parlò per intero

e fu incomprensibile. Certo

credeva di essere l’ultimo

parlante. Invece è accaduto

che tutti ancora parlano

e il mondo

da allora è muto.

tempo

 Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri

che paralleli slittano

spesso in senso contrario e raramente

s'intersecano. È quando si palesa

la sola verità, che disvelata,

viene subito espunta da chi sorveglia

i congegni e gli scambi. E si ripiomba

poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo

solo i pochi viventi si sono riconosciuti

per dirsi addio, non arrivederci.